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Terènzio Afro, Pùblio.

Commediografo latino. Nato a Cartagine ma di probabile origine berbera (secondo la tradizione era di carnagione scura), fu portato a Roma come schiavo dal senatore Terenzio Lucano. Questi non solo gli diede un'istruzione superiore, ma lo affrancò, introducendolo anche nel circolo degli Scipioni, dove si legò ai nomi della nobiltà romana filoellenica (in particolare a Gaio Lelio e a Scipione Emiliano). Di T. sono giunte fino a noi sei commedie: Andria (La fanciulla di Andro; rappresentata la prima volta nel 166 a.C.); Hecýra (La suocera; 165 a.C.); Heautontimoroúmenos (Il punitore di se stesso; 163 a.C.); Eunúchus (L'eunuco; 161 a.C.); Phormio (Formione; 161 a.C.); Adélphoe (I fratelli; 160 a.C.). La cronologia delle opere di T. è stata ricavata dalle didascalie che gli antichi grammatici avevano premesso a ciascuna di esse: attualmente gli studiosi hanno messo in dubbio questa successione, ma ancora non è stata raggiunta una nuova definizione. T. incontrò difficoltà nel rapporto con il pubblico (lui stesso narra che le prime rappresentazioni dell'Hecýra fallirono perché gli spettatori lasciarono il teatro); ciò si può forse imputare al tono della sua arte, che lasciava la comicità plautina a favore di una maggiore serietà e ricerca psicologica. Lo scarno successo di pubblico indusse il poeta, secondo alcune fonti, a compiere un viaggio in Grecia, per studiarne direttamente la cultura e anche per ricercare nuove opere da utilizzare come modelli. Sembra che in quell'occasione abbia scritto altre commedie: esse non ci sono giunte perché disperse nel naufragio in cui lo stesso T. morì. ║ La poetica, l'arte e l'ideologia: a differenza di Plauto, che scelse i suoi modelli tra più autori della commedia nuova greca, T. si limitò a due soli, Menandro e Apollodoro Caristio. Ciò non gli impedì tuttavia di applicare sistematicamente la tecnica della contaminatio, rifacendosi nel medesimo lavoro non a un singolo modello ma a più di uno, anche non dello stesso autore. Tale pratica gli venne rimproverata, ma T. si difese ricordando illustri predecessori, tra cui Ennio, Nevio e lo stesso Plauto. La polemica sulla contaminatio ci è giunta attraverso il prologo di una commedia terenziana: il poeta, infatti, riformò radicalmente la funzione di questa sezione nei suoi drammi. A differenza del prologo plautino che aveva valore informativo (ragguagliando sinteticamente il pubblico sull'argomento della vicenda), quello di T. diventò una sorta di tribuna letteraria, in cui l'autore esponeva a grandi linee la sua poetica e rispondeva alle critiche. Nei suoi prologhi respinse le voci che lo volevano semplice prestanome dei suoi nobili protettori del circolo degli Scipioni, rivendicò le scelte tecniche e poetiche mediante le quali si proponeva di riformare il genere della commedia e di distinguersi non solo dal teatro comico latino ma anche da quello della neà greca. Le innovazioni di T., peraltro, furono davvero consistenti: la soppressione stessa del prologo espositivo induceva sospensione e attesa da parte del pubblico, che doveva ricavare ogni informazione dall'azione scenica. Quest'ultima veniva costruita dal poeta con grande perizia: lo spettatore veniva indotto a supposizioni che poi si dimostravano errate, in una continua tensione drammatica che aveva lo scopo di sostituire lo scioglimento voluto dall'autore a quello che in un primo tempo, in quanto più convenzionale e conforme alla tradizione, appariva probabile. Le celeberrime sentenze (gnómai) dello stile menandreo erano diluite nei dialoghi e tradotte da T. nell'espressione dei più triti luoghi comuni che, poi, la vicenda teatrale provvedeva a smentire. Quello terenziano, infatti, rappresenta agli occhi moderni il primo esempio di teatro a tesi, ormai svincolato dalla pura comicità plautina. L'impegno di T. non era di tipo politico, ma attinente al costume e alla morale tradizionali e proponeva una nuova concezione dei rapporti familiari, sociali e umani. Oggetto delle sue critiche erano, in primis, l'istituto del matrimonio come contratto, la condizione di inferiorità della donna, l'eccesso di rilevanza del concetto di onore e di posizione sociale. Il problema che appassionava maggiormente T., tuttavia, era quello dell'educazione dei giovani (argomento centrale delle commedie Heautontimoroúmenos e Adelphoe); egli suggeriva rapporti fondati sull'indulgenza e la comprensione, in cui il rispetto reciproco e il metodo della persuasione fossero gli strumenti di un'efficace pedagogia, in luogo della rigidezza dei ruoli, dell'intransigenza e delle severe proibizioni. Si rispecchiavano nelle sue commedie le contrapposte sensibilità e culture della cerchia filoellenica e liberale degli Scipioni e dell'antica tradizione, incarnata da Catone il Censore. Rifiutando il principio che gli uomini debbano essere giudicati in base al loro status sociale, T. ripudiò di conseguenza i più convenzionali "tipi" della commedia greca (il vecchio iroso, il servo ingannatore e traditore e quello furbo ma fedele, l'etera profittatrice, ecc.). I personaggi di T. sono liberi da schemi imposti dalla loro professione o condizione sociale e dalla stilizzazione dei "caratteri" e sono invece più simili a figure reali, attraverso le quali l'autore voleva comunicare la sua positiva visione dell'uomo. Per T. la natura umana è tendenzialmente buona, ove le condizioni lascino spazio a tale bontà, e merita di essere considerata in sé e per sé, senza ridurla a un confronto perdente con la perfezione della divinità. A simbolo dell'humanitas terenziana è stato assunto il celebre verso Homo sum; nihil humani a me alienum esse puto (Sono un uomo e nulla che sia umano ritengo a me estraneo), espressione di una sensibilità morale del tutto originale, inedita nei modelli greci e nei contemporanei latini, in base alla quale dovere dell'uomo è occuparsi dei suoi simili e soccorrerli nel bisogno. Dal punto di vista della tecnica teatrale, inoltre, T. si sforzò di indurre nello spettatore la sensazione di assistere a una vicenda reale: per questa ragione eliminò completamente i momenti (assai frequenti invece in Plauto) di interruzione dell'azione scenica, in cui i personaggi interloquivano direttamente con il pubblico, e ridusse anche al minimo le scene meramente buffonesche, che avevano tanto caratterizzato la commedia plautina. L'azione drammatica si sviluppava mediante le autonome scelte dei protagonisti, determinata dalla loro volontà e dai loro comportamenti e non dalla predeterminazione divina, dalla cecità del caso o dall'inevitabilità del Fato. Per questa ragione anche il rodatissimo espediente dell'agnizione (V.) venne usato da T. di rado e con funzione comunque marginale; per la stessa ragione il ruolo di deus ex machina (spesso attribuito da Plauto al tipo del servo che tesse intrighi in favore del padrone) sparisce e, anzi, spesso T. mostra il fallimento delle trame più furbe, che talvolta peggiorano addirittura la situazione. La quasi totale assenza di comicità nelle commedie terenziane (ad eccezione di Eunúchus e Phormio, in cui l'autore imitò movenze plautine per guadagnarsi il favore del pubblico) è funzionale alla resa della quotidianità delle vicende narrate, al registro patetico e sentimentale dei rapporti, allo scopo di commuovere e coinvolgere lo spettatore. A questo medesimo obiettivo concorreva anche la lingua e lo stile di T.: esso è differenziato e non uniforme, adattandosi ai personaggi in scena. Accanto al più tipico tono "mediano", che fu ampiamente ripreso ad esempio dal Cicerone delle Epistulae, sono coltivati un lessico e uno stile più levato e oratorio, propri dei personaggi che appaiono più legati alle convenzioni sociali tradizionali (Cartagine 185 a.C. circa - ? 159 a.C. circa).